giovedì 1 settembre 2016

La Vitamina D e l'allattamento: utile anche per il bambino!

Da una ricerca dell'Università di Otago, in Nuova Zelanda, pubblicata su Journal of Nutrition è emerso che la Vitamina D aumenta nel sangue dei neonati se la mamma ne assume durante l'allattamento.

Numerosi studi dimostrano come la Vitamina D sia essenziale nel metabolismo oseeo e quindi sia molto utile anche nelle prime fasi della crescita e quindi l'aumento di questa vitamina nel sangue favorisce senza dubbio la normale crescita del bambino.

Inoltre gli effetti della Vitamina D sono benefici per molti altri organi e apparati: favorisce lo sviluppo e mantiene integre le funzioni cognitive, agisce sull'apparato cardiovascolare riducendo il rischio di infarto, riduce i sintomi dell'asma e abbassa il rischio timorale.

E' evidente che questa vitamina sia utile a grandi e piccini e quindi se ne raccomanda l'integrazione anche durante la gravidanza e l'allattamento.

Dott.ssa Giulia Mori - Medico di Medicina Generale

domenica 28 agosto 2016

Cos'è e come funziona la nostra memoria/ prima parte

Memoria


La memoria è un’abilità cognitiva complessa che permette di immagazzinare, conservare e recuperare informazioni. Senza memoria non vi è azione, percezione, pensiero. Senza memoria non è presente vita psichica come noi la conosciamo ed intendiamo. Lo psichismo si iscrive nella temporalità, strettamente connesso all’attività della memoria che si svolge attraverso alcuni meccanismi fondamentali così riassumibili:
  • codifica che si riferisce al modo in cui l’informazione viene tradotta in una rappresentazione interna registrabile in memoria;
  • ritenzione: attività che corrisponde al mantenimento nel tempo dell’informazione acquisita in memoria;
  •  recupero: si riferisce al modo in cui l’informazione archiviata in memoria viene ripresa. A livello neurofisiologico la memoria non ha un centro neuronale specifico deputato ai processi mnestici.  Questa attività cognitiva non è localizzata in singole zone dei nostri emisferi cerebrali ma è il risultato di un’attività “distribuita” nell’intero cervello.
La memoria ci consente di conservare tracce della nostra esperienza passata e di servircene per entrare in rapporto con la realtà, presente e futura
La memoria ci permette infatti grazie alla presenza di ricordi di esperienze vissute ed ai loro risultati, di fare programmi e progetti per il presente ed il futuro, correggendo gli errori precedenti ed utilizzando i successi come base per la risoluzione di problemi e di azioni successive.
Essa interviene in tutti i  nostri processi mentali: la percezione, l’attenzione, l’apprendimento e il pensiero.  
Atkinson e Shiffrin, due importanti psicologi, studiosi dei processi di memoria, ritengono che vi siano tre memorie, cioè, la  memoria sensoriale, la memoria a breve termine (MBT) e la memoria a lungo termine (MLT) .
Vediamo sinteticamente le attività svolte dai diversi tipi di memoria.
La memoria sensoriale trattiene per alcun attimi una quantità elevata di informazioni rendendoci così possibile la percezione della realtà. La memoria sensoriale presenta caratteristiche diverse a seconda dei sensi coinvolti:
  • La memoria sensoriale visiva, chiamata “memoria iconica” è un tipo particolare di memoria di cui generalmente non siamo consapevoli e che ci permette di ricordare cose o immagini viste anche per pochi istanti.
  • La memoria sensoriale uditiva, chiamata “memoria ecoica”, dura circa due secondi e ha un’importanza fondamentale nella comprensione del linguaggio verbale. Le parole sono infatti costituite da un insieme di suoni ed una persona non è in grado di identificare una parola se non prima di averne udito tutti i suoni.
La memoria a breve termine (MBT) trattiene le informazioni per un breve spazio di tempo (qualche decina di secondi), dopo il quale esse i scompaiono. La MBT è in grado di contenere contemporaneamente solo poche unità di informazioni: nell’individuo adulto, circa sette, con piccole variazione a seconda delle caratteristiche del materiale da ricordare. Se le informazioni presenti in essa non vengono trasferite nella MLT sono destinate a scomparire. Per evitare questo, si utilizza in modo automatico o volontario una tecnica, chiamata reiterazione che consistente nel ripetere più volte l’informazione, a voce o solo con il pensiero. La MBT ha una funzione di transito per le informazioni provenienti dalla memoria sensoriale prima che esse si trasformino in tracce permanenti, definite tracce mnestiche, nella MLT.
La MBT  è definita anche “memoria di servizio” perchè al suo interno vengono attuate strategie di elaborazione delle informazioni poi richiamate nella Memoria a Lungo Termine.

giovedì 14 gennaio 2016

La cannabis shunk e l'insorgenza delle psicosi

La cannabis shunk e l'insorgenza di psicosi
La cannabis shunk danneggia mente e cervello

Una ricerca condotta al Kings College di Londra ha rilevato un dato molto allarmante: una variante ibrida della comune cannabis, detta “shunk” (creata e molto diffusa a partire dagli ann ’80) provoca, nella metà delle persone che ne fanno uso, l’insorgenza di psicosi schizofreniche con la presenza di allucinazioni visive ed uditive ed alterazioni dell’umore con alternanza di euforia e depressione ed attacchi d’ira.
Lo studio, condotto da un team di ricercatori guidato dal professor R. Murray psichiatra presso il Kings College dall'anno 2005 all'anno 2011, ha coinvolto 800 persone di età compresa tra i 18 ed i 65 anni.
Qualche tempo fa sia a livello di senso comune che tra alcuni gruppi di scienziati, si era diffusa l’idea che coloro che utilizzano la cannabis siano persone già in partenza un po’ “strane” e che quindi presentino una particolare vulnerabilità a sviluppare alcune psicopatologie e dipendenze da sostanze oltre comportamentali. Un’altra corrente scientifica sosteneva invece che esistono delle psicosi (grave disturbi mentale ed emozionale che altera il rapporto con la realtà esterna ed interna) scatenate da sostanze. Lo psichiatra Robin Murray dopo aver svolto uno studio clinico e statistico insieme ai suoi collaboratori, ha evidenziato che nel solo Sud di Londra su tre persone intervistate, due dichiaravano di aver fumato cannabis nel corso della loro vita e che quindi, sembrerebbe impossibile che “due persone su tre possano essere classificate come non normali” o “strane”. Patendo da questi dati raccolti e da alcune premesse scientifiche, i ricercatori hanno studiato per un lungo periodo di tempo, tutti i casi che negli ospedali e cliniche della zona sud di Londra,venivano ricoverate per “episodi psicotici” caratterizzati da sintomi come quelli sopra descritti: allucinazioni uditive e visive deliri attacchi d’ira alternanza di euforia e depressione Le loro conclusioni, sono state pubblicate dal giornale scientifico The Lancet Psychyatry.

CONCLUSIONI DELLA RICERCA

 La prima logica conclusione di questa ricerca ed analisi clinica a livello scientifico è la seguente: il consumo di super cannabis (shunk) è un forte predittivo di patologie psicotiche. Solo nel Sud di Londra infatti, ben il 24% delle psicosi diagnosticate durante quel periodo, erano state scatenate dall'assunzione di cannabis potenziata o shunk. L’assunzione di shunk, in chi ne fa uso, triplica il rischio di psicosi rispetto a chi non assume tale sostanza. Non solo: purtroppo il rischio diventa 5 volte maggiore se la super cannabis viene consumata tutti i giorni. Il rischio non aumenta invece nelle stesse proporzioni fumando cannabis normale o non potenziata. Uno dei motivi dello scatenarsi delle psicosi utilizzando la cannabis potenziata, sembra essere connesso ad una minore quantità in essa, di THC (tetraidrocannabinolo), la molecola responsabile degli effetti psicoattivi della cannabis che provoca la sensazione di stordimento e che è presente nella cannabis shunk in una quantità ridotta, solo il 4% rispetto al 15% che generalmente è invece presente nella cannabis non potenziata.

 RISCHI E PERICOLI CON LO SHUNK O CANNABIS POTENZIATA

 Secondo gli autori di questa ricerca e R. Murray, psichiatra del Kings College di Londra che li ha diretti, è assolutamente necessario mettere a conoscenza del pubblico, dei ragazzi, dei medici, degli insegnanti, genitori e di tutti coloro che lavorano con i giovani, particolarmente con gli adolescenti – fascia d’età molto vulnerabile al possibile consumo per via del desiderio di sperimentare che gli è propria ed anche per la facile influenzabilità – dei gravi rischi connessi all'assunzione di questa droga potenziata anche in considerazione del fatto che nei soli Paesi Bassi attualmente sono già disponibili altre forme di cannabis potenziate ritenute due volte più potenti di quelle che in Gran Bretagna nelle persone ricoverate per psicosi, avevano scatenato questi gravi disturbi mentali e grandi sofferenze. Questa evidenza, contrapposta a quella del mercato fiorente di cannabis comune e cannabis fortemente potenziata, riaccende naturalmente il dibattito tra chi sostiene la depenalizzazione e chi invece si oppone ad essa, nell’uso della droga.

 DEPENALIZZAZIONE O NO

Considerando che la tendenza prevalente a livello mondiale è attualmente quella della depenalizzazione ma anche, contemporaneamente, quella della creazione di droghe sempre più potenti e pericolose, si evidenzia la necessità estremamente urgente di effettuare ed applicare progetti informativi ed educativi rivolti soprattutto ai giovani ed ai giovanissimi per renderli consapevoli dei rischi molto gravi che si corrono nell'assumerle. Nei giovanissimi infatti, la droga oltre a provocare o a slatentizzare gravi patologie psichiatriche che rientrano nelle psicosi come la schizofrenia ed il disturbo bipolare, può provocare anche danni al cervello ed alterazioni anatomiche della massa cerebrale nel suo complesso. Questo a sua volta è spesso alla base di gravi stati di ansia e depressione difficili da curare.
Anche in Italia infatti, come spiega il prof. C. Altamura psichiatra all'Università di Milano, sono numerosissime le richieste di aiuto da parte di adolescenti di età inferiore ai 20 anni che si rivolgono alle strutture sanitarie per questi problemi – grave ansia e depressione – associati ad un abuso di droghe a cui spesso si connette anche quello dell’alcol, due sostanze che si potenziano, in negativo, a vicenda.

 Rispetto al dibattito tra depenalizzazione o no, è necessario tener presente che se è vero che la cannabis per alcune sue caratteristiche può essere utilizzata a livello medico in dosaggi terapeutici minimi efficaci per portare sollievo a persone che soffrono di alcune determinate – e spesso gravi – patologie fisiche e spesso degenerative, è altrettanto vero però che là dove essa non è invece prescritta dal medico ma utilizzata come droga da cui si è dipendenti o “da provare”, spesso l’acquisto della stessa nelle sue forme potenziate e più pericolose, avviene online – tramite siti internet – da parte dei ragazzi, in modo tale da poter così eludere tanto la prescrizione medica che addirittura, la stessa trattativa con gli spacciatori, per essere certi di “procurarsela”.

 Un aspetto questo che porta una gran parte dei medici e degli operatori sanitari che tutti i giorni negli ultimi anni affrontano, insieme a loro ed alle loro famiglie i problemi di giovani e giovanissimi con gravi disturbi di psicosi scatenati dalla cannabis, a pensare che non potendo farlo personalmente o come categoria, di porre un freno a questa deriva, dovrebbero piuttosto farlo i politici con i mezzi legali che gli sono propri. Prendendo in merito una posizione ferma ed unitaria, una decisione per fermare questo fenomeno di deriva a cui i nostri giovani sono esposti. I politici potrebbero e dovrebbero intervenire per stabilire legalmente i limiti ed i confini oltre i quali la vendita della cannabis shunk, a livello pubblico, considerati i gravi rischi di salute pubblica – le psicosi sono disturbi mentali gravi ed i figli di ognuno di noi, assumendo tale sostanza potrebbe andarvi incontro – che sono ad essa connessa, non dovrebbe essere permessa.

sabato 26 dicembre 2015




SPORT, PREVENZIONE E TUMORI: DI CORSA CONTRO IL CANCRO

Spesso, quando il medico consiglia ai propri pazienti di fare regolarmente attività fisica, questa raccomandazione viene riposta in un angolo della mente e dimenticata. E invece l’attività fisica costante, così come l’alimentazione corretta, va considerata alla stregua delle prescrizioni farmacologiche: qualcosa che è importante “assumere” regolarmente. L’uomo, infatti, non è geneticamente programmato per uno stile di vita sedentario e l’assenza di un’adeguata dose di movimento espone a un aumentato rischio di malattie cardiovascolari, obesità, diabete e cancro.
L’impatto dell’attività fisica sulla patologia tumorale è un argomento di elevato interesse e con abbondante letteratura, anche se la sua valutazione appare estremamente complessa: sono state avanzate numerose ipotesi su tale correlazione, ma tuttora non si conoscono gli esatti meccanismi con cui lo sport riesce a prevenire diverse forme di tumore. Si ipotizza che l’attività fisica consenta di ottenere questi risultati aumentando l’ossigenazione dei tessuti e i livelli di composti protettivi come gli antiossidanti, favorendo il controllo di sostanze che si sono dimostrate cancerogene come alcuni ormoni o fattori infiammatori, riducendo la quantità di grasso corporeo e rendendo più veloce il transito degli alimenti nell’intestino.
Qualunque siano i meccanismi, comunque, il dato fondamentale è che l’attività fisica ha una reale azione preventiva sull’insorgenza di alcune patologie tumorali.
In questo senso occorre avere ben chiara la differenza fra prevenzione e diagnosi precoce. Nonostante i due termini vengano a volte confusi o utilizzati come sinonimi, dire diagnosi precoce non equivale a dire prevenzione: la prima, infatti, permette di individuare tumori molto piccoli e non ancora diffusi agli organi vicini, ma la malattia è comunque già presente; la seconda, invece, si riferisce ad una serie di comportamenti attuati con lo scopo di evitare che il tumore si formi.
Nel tumore del colon-retto, ad esempio, la prevenzione consiste fondamentalmente nel mantenere sotto controllo il peso corporeo con l'esercizio fisico e assumere una dieta povera di grassi e ricca di frutta e verdura, mentre la diagnosi precoce è  rappresentata da esami specifici (ricerca di sangue occulto nelle feci, colonscopia).
Secondo il Center for Diseases Control di Atlanta, un adulto dovrebbe fare 30 minuti al giorno di attività fisica moderata per almeno cinque giorni a settimana (per esempio camminando a passo svelto) e 20 minuti di attività fisica intensa (come correre) per almeno tre giorni a settimana. Sommare le ore non è produttivo in termini di prevenzione: tre ore di sport concentrate in un giorno non hanno lo stesso effetto benefico di tre sessioni di attività fisica di un’ora ciascuna effettuate in giorni diversi. L’effetto dell’attività fisica sul cancro del colon è uno dei più studiati: sono stati pubblicati oltre 50 studi sull’argomento, dai quali si deduce che all’aumentare dell’attività fisica (per intensità, durata o frequenza) si riduce il rischio di ammalarsi. Un soggetto attivo ha un rischio relativo ridotto del 30-40 per cento rispetto a un soggetto sedentario, e ciò indipendentemente da altri fattori di rischio come il peso corporeo. Ad attività più intensa corrisponde maggiore protezione. Anche i dati riguardanti il tumore al seno indicano che le donne attive sono meno a rischio di quelle sedentarie, anche se la riduzione del rischio varia moltissimo da studio a studio (tra il 20 e l’80 per cento) per cui al momento non è possibile dare una stima scientificamente attendibile. Secondo gli esperti la protezione deriva dal fatto che lo sport abbassa i livelli degli ormoni femminili e dei fattori di crescita legati all’insulina, che hanno un ruolo importante nello sviluppo del cancro del seno. Lo sport e il movimento sono utili sempre, sia prima sia dopo la menopausa, ma è la pratica sportiva intensa durante l’adolescenza che sembra fornire la massima protezione. Il sovrappeso annulla in parte i benefici, che sono massimi per le donne normopeso. Riguardo il tumore al polmone i soggetti attivi fisicamente vedono ridursi del 20 per cento la possibilità di ammalarsi grazie alla regolare pratica sportiva (uomo o donna indistintamente). Servono però ulteriori studi per comprendere meglio se il beneficio aumenta con l’intensità, mentre è dimostrato che nessuna pratica sportiva è in grado di contrastare efficacemente l’effetto nefasto del fumo di sigaretta.
L’attività fisica è infine  una risorsa anche per le persone che hanno già ricevuto una diagnosi di malattia. Diversi studi scientifici hanno evidenziato che, nel caso di  donne con cancro al seno, vi è un evidente miglioramento sia della qualità di vita (con riduzione della sensazione di stanchezza, spossatezza e mancanza di energia) che della prognosi. Vantaggi sono stati riscontrati anche per i pazienti con cancro al colon: il movimento riduce il rischio di recidive e aumenta la sopravvivenza.


giovedì 17 dicembre 2015

Le diverse tipologie di disgrafia




Disgrafia


La disgrafia può essere di diverse tipologie:
  • Disgrafia rilassata: le lettere sono piccole ed arrotondate, la grafia è arrotondata 
  • Disgrafia rigida: la grafia si presenta tesa e spigolosa, con lettere alte e strette, inclinate verso destra. 
  • Disgrafia maldestra: le lettere sono di dimensioni varie, la scrittura e le pagine scritte sono disordinate, cancellate. 
  • Disgrafia impulsiva: la grafia si evidenzia come frettolosa; le lettere sono distribuite male nelle righe e nelle dimensioni. 
  • Disgrafia lenta e precisa: la grafia è molto curata così come l’impaginazione. I bambini con questo tipo di disgrafia sono però lentissimi nello scrivere. 
Attualmente si dividono i soggetti i bambini con disgrafia in gruppi, a seconda del tipo di difficoltà presentata. E’ possibile così distinguere in primo luogo tre gruppi di soggetti.

Divisione in gruppi dei bambini con disgrafia in base alle difficoltà 

  • Soggetti con difficoltà posturali, che scrivono in modo rigido, impugnando malamente la penna e calcando molto sul foglio. 
  • Soggetti con difficoltà di organizzazione dello spazio, che presentano nella loro grafia lettere sovrapposte oppure eccessivamente distanziate. Inoltre le lettere non rispettano i margini e le righe, ascendenti e discendenti. 
  • Soggetti con difficoltà di controllo motorio: la loro scrittura è veloce ma senza una direzione, le lettere sono di varia forma ed illeggibili.    

giovedì 12 novembre 2015

Libri e zaini scolastici: il peso della cultura




Il modo corretto di utilizzare lo zaiono
Secondo dati recenti il 95% dei genitori è preoccupato che la schiena dei loro figli ossia essere danneggiata dall'utilizzo di zainetti troppo pesanti, anche perché quasi il 50% dei bambini lamenta episodi di mal di schiena. È quindi tutt’oggi di strettissima attualità la polemica (vecchia) sul rapporto tra il peso degli zainetti scolastici e i rischi per la salute dei bambini. L’attenzione su questo argomento deve essere massima perché, se è vero che l’utilizzo degli zainetti non è in grado di causare la scoliosi (alterazione della colonna in cui si ha un deformazione strutturale delle vertebre), tuttavia può accentuarla se già il bambino ne soffre o comunque indurre posture viziate e dolorose lombalgie. Ma quali sono le caratteristiche di uno zainetto ideale e come va utilizzato?

Lo zainetto deve essere dotato di schienale rigido (per distribuire in modo equilibrato il peso) ed imbottito (così da attutire i colpi se si corre o saltella mentre si indossa), avere una forma regolare (per una corretta distribuzione del carico) ed essere di dimensione adeguata  all’età. Il peso,  una volta riempito, non dovrebbe superare il 15% del peso del bambino. Le bretelle devono essere larghe ed imbottite (per evitare dolori alle spalle) oltre che regolabili, in modo che lo zainetto non scenda sotto la vita. Molto importante è la presenza di una cintura addominale per mantenerlo ben aderente alla schiena. Il modello ideale dovrebbe anche essere dotato di ruote ed una maniglia per essere utilizzato anche come trolley o, almeno, per essere talvolta trasportato a mano. Sono da evitare gli zaini troppo grandi, perché si ha la tendenza a riempirli anche oltre il necessario, e quelli  con la struttura a soffietto che, oltre ad essere troppo capienti, danno anche un maggiore sbilanciamento all'indietro.

Lo zaino va riempito in altezza piuttosto che in larghezza e va chiuso ben stretto, in modo che il materiale non si muova all’interno. I libri più grandi e pesanti vanno messi verso lo schienale, proseguendo poi con quelli più piccoli e leggeri (per non sbilanciare il bambino).

Lo zaino andrebbe sempre indossato dopo averlo posto su un tavolo e non va mai portato su una spalla sola. Nel caso in cui il bambino lo prenda da terra non deve sollevarlo in modo brusco e deve flettere le gambe, così come si fa per spostare un grosso peso. Le bretelle vanno infilate una per volta e mai contemporaneamente, perché in questo caso la colonna si pone in iperlordosi. Una volta indossato lo zainetto va tenuto sulle spalle il meno possibile (mai per più di 15 minuti), poggiandolo tutte le volte che è possibile (ad esempio in autobus).

Avere o meno problemi a causa dell’utilizzo di uno zainetto pesante dipende anche dalle condizioni fisiche di chi lo indossa. I bambini più allenati, con una muscolatura forte e con un buon controllo neuromotorio del proprio corpo, si affaticano meno, hanno in generale meno problemi a trasportare i loro zaini e sottopongono ad un minor stress anche l’apparato cardiocircolatorio. La migliore gestione del peso sulle spalle è, dunque, uno dei tanti, innumerevoli motivi per cui appare fondamentale che i ragazzi facciano regolarmente dell’esercizio fisico e che questo sia svolto in modo regolare e per tutto l’anno.

Benché siano diverse le strategie per minimizzare i “danni da zainetto” sarebbe comunque auspicabile che, in un mondo votato alla tecnologia, nelle scuole si iniziassero ad adottare libri in formato digitale, riducendo drasticamente in tal modo il carico di lavoro che i ragazzi devono sopportare le mattine.

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mercoledì 11 novembre 2015

Non è reato la selezione di embrioni, ma la loro soppressione si…..

La diagnosi genetica preimpianto
La Corte Costituzionale ha emesso una sentenza a dir poco discutibile: in caso di gravi malattie a trasmissione genetica non è reato la selezione degli embrioni al fine di impiantare solo quelli sani. Rimane, però in vigore la Legge 40 che vieta e sanziona penalmente la soppressione degli embrioni anche se malati.

La questione è stata posta all’attenzione della Corte Costituzionale dal Tribunale di Napoli che, nell’ambito di un procedimento penale contro un gruppo di medici perseguiti con l’accusa di produrre embrioni selezionati eugeneticamente sopprimendo quelli affetti da gravi patologie.

La sentenza ha quindi decretato che non è reato la selezione degli embrioni fecondati «esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità» perché la precedente legge 40 violava gli articoli 3 (uguaglianza) e 32 della Costituzione (diritto alla salute).

Il problema di cosa fare con gli embrioni portatori di patologie genetiche, però, rimane. La legge italiana vieta la loro soppressione, vieta il loro utilizzo ai fini di ricerca, permette solo la loro conservazione ma per quanto? La domanda è pesante e la questione morale sollevata è davvero molto grave. Se da un alto, infatti, è rispettato il diritto della coppia che si rivolge alla fecondazione assistita di avere un figlio sano, dall'altro si pone la grave questione del destino degli embrioni ibernati che rimarranno tali fino a che un legislatore non avrà il coraggio di modificare una legge che è stata fatta e poi modificata a pezzi, senza tenere contro della globalità della questione etica relativa alla manipolazione della vita umana.

Le opinioni favorevoli e contrarie:

«Si tratta di una sentenza importante perché toglie finalmente ogni ombra dalla possibilità di effettuare la diagnosi preimpianto - spiega Filomena Gallo, avvocato e segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni -. Qui non si tratta di eugenetica, ma di tutela della salute della donna e dell’embrione stesso: cadendo il reato di selezione, la diagnosi preimpianto è adesso pienamente legittima. In questo modo si evita che una donna possa vedersi impiantato un embrione malato con la prospettiva eventuale di un aborto. Ad oggi - prosegue Filomena Gallo - la diagnosi preimpianto per le coppie fertili ma con patologie genetiche viene fatta solo in tre ospedali pubblici italiani, mentre viene fornita in tutte le strutture private. Per ricevere un servizio garantito da una precedente sentenza della Corte Costituzionale, le coppie dovevano rivolgersi ai tribunali, che con innumerevoli ordinanze hanno costretto gli ospedali pubblici a fornire il servizio o a richiederlo a una struttura convenzionata».

Con questa sentenza viene confermato quanto stabilito precedentemente dalla stessa Corte Costituzionale, secondo cui era caduto l’obbligo a impiantare tutti gli embrioni prodotti con la fecondazione assistita. spiega il professor Antonio Spagnolo, direttore dell’Istituto di Bioetica presso la Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma e Policlinico Gemelli Il problema è che ci troviamo davanti a una situazione in cui soccombe il principio di autonomia e dignità dell’embrione, stabilito dall’articolo 1 della stessa legge 40 («assicura i diritti di tutti i soggetti coinvolti, compreso il concepito», ndr). Dobbiamo chiederci: chi è malato non ha il diritto di vivere? È giusto e comprensibile che una coppia desideri un figlio sano, ma è la medicina che deve porsi questo problema prima ancora di concepire l’embrione. Esistono per esempio delle tecniche per attuare una fecondazione con sperma o gameti eliminando patologie genetiche, come l’eliminazione di un globulo polare che consente di scartare la parte malata del gamete: la ricerca dovrebbe puntare su questo. Qui siamo di fronte a una forma indiretta di eugenetica: gli embrioni malati non vengono distrutti ma messi in un limbo. Dobbiamo chiederci: che dignità ha l’embrione? È una questione di coerenza scientifica, più ancora che di morale.

Il professor Spagnolo solleva poi una questione ancora più delicata: È sbagliato parlare di “embrioni malati”, perché in un embrione posso vedere un danno genetico, non una patologia conclamata. E non è detto che un danno genetico porti nel 100% dei casi a sviluppare una malattia.